Oltre ad essere utilizzati saltuariamente per il nutrimento degli animali venivano macinati per ricavarne farina, operazione frequente per le fave e i ceci. Ma si potevano mangiare anche bolliti.
Come ricorda Plinio le farinate di fave (puls fabata) erano impiegate anche nei riti religiosi. Con la farina di fave si era perfino cercato di fare, senza successo, del pane (Plin., N. H., XVIII, 117).
In età imperiale sappiamo che a Roma le fave, nutrienti ed economiche, erano usate sia fresche che secche, fuori stagione per una più lunga conservazione (Plin., N. H., XVIII, 117).
Anche i ceci venivano cotti assieme ai cereali oppure macinati per produrre farine per fare farinate. Si potevano fare delle frittelle con una pastella abbastanza lenta, ottenuta mescolando farina di ceci all’acqua, se ne distribuiva con un mestolo piccole quantità nel vino e pepe bollenti in una padella.
I ceci potevano essere bolliti assieme ai “fagioli dell’occhio” e poi conditi con finocchio verde, pepe, poco vino cotto o sale e olio.
Riguardo ai ceci Plinio scrive che venivano bolliti, arrostiti e salati ed erano serviti dopo cena insieme al vino per spingere la gente a bere.
Anche i piselli venivano mangiati secchi o cotti in minestre (Varro., De agr., I, 32, 2; III, 7, 8; Plin., N. H., XVIII, 57-58, 129; Colum., De re r., II, 7, 1; II, 10, 4).
Le notizie letterarie trovano conferma nella documentazione archeologica. Per esempio stando ai reperti paleobotanici del Gran Carro di Bolsena e dagli altri siti i legumi potevano essere consumati arrostiti, non escludendo comunque il loro consumo sotto forma di sfarinati o di minestre.